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Clicca sulle icone con la freccia. Ad ogni icona corrisponde un brano di Edgar Allan Poe.

Ascolta con attenzione, prendi qualche appunto e fai il riassunto scritto.

Svolgi, anche, il seguente tema:

  "Inventa una storia fantastica e surreale ispirandoti ai racconti di Poe".

 

Copia e incolla il link, leggi la notizia con attenzione e scrivi un commento

 

http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/veneto/2014/notizia/rovigo-incidente-sul-lavoro-quattro-morti-vigili-del-fuoco-probabile-errore-umano-_2068992.shtml

 

il gatto nero

il cuore rivelatore

Metzenghestein.

l'ombra

6 ottobre 2014

riassunto scritto dei seguenti brani in word

9/12/2014

La ragazza che saltava nel tempo


 

E' un film d'animazione giapponese prodotto nel 2006 dalla MADHOUSE, diretto da Mamoru Hosoda e basato sul romanzo omonimo di Yasutaka Tsutsui


 

Makoto Konno è una studentessa delle superiori; un giorno inciampa nel laboratorio di scienze e per sbaglio urta un congegno che, come sarà rivelato più tardi, consente di viaggiare nel tempo. Quando la fanciulla cade dalla propria bicicletta per essere travolta da un treno e inaspettatamente si salva, scopre che, se compie un salto abbastanza lungo, può tornare indietro nel tempo ad un momento a scelta della sua vita.

Makoto inizia quindi ad utilizzare questo potere per risolvere le piccole problematiche della sua vita o semplicemente per divertirsi. D'altra parte, come le fa notare la sua confidente, la zia restauratrice, scopre che ogni sua azione va ad influire sugli eventi quasi sempre in modo catastrofico e di conseguenza viene costretta ad usare ripetutamente il suo potere per porre rimedio ai problemi che lei stessa, pur non volendolo, ha causato.

Così, quando il suo amico Chiaki Mamiya le confida di essere innamorato di lei, Makoto torna indietro nel tempo per evitare di sentirselo dire e quindi continuare ad avere un rapporto d'amicizia con il ragazzo, finendo per costringerlo a cedere alle avance di un'altra fanciulla, che si fidanza con lui.

Anche l'altro suo amico, Kōsuke Tsuda, finisce per innamorarsi di lei e glielo rivela: anche in questo caso, Makoto sfrutta il suo potere per fare in modo che il ragazzo si fidanzi con Kaho, la fanciulla della cui nonna Kōsuke s'è preso cura, quando era un volontario in una casa di ricovero per anziani. Nel frattempo, Makoto ha scoperto un numero tatuato sul suo braccio: esso indica quanti salti nel tempo le sono ancora possibili. Gliene resta ancora uno, quando impulsivamente decide di evitare una telefonata di Chiaki, che le rivela di sapere che lei salta nel tempo. Ciò, però, le impedisce di salvare Kōsuke e Kaho, i quali vengono investiti dallo stesso treno che all'inizio della storia doveva travolgere lei.

Proprio nel momento in cui la fanciulla, che ha tentato fino all'ultimo di fermarli, assiste con orrore all'incidente, il tempo improvvisamente si ferma. È stato Chiaki che confessa di provenire dal futuro: le mostra il congegno che ha consentito a Makoto di saltare nel tempo e le rivela di essere tornato nel passato per vedere un dipinto (che ha restaurato la zia di Makoto). Infine, Chiaki le dice che ha usato il suo ultimo salto per salvare Kōsuke e che quindi ora non può più tornare al futuro, ma neppure continuare a frequentarla, poiché nel futuro non è permesso parlare alla gente del passato dei salti nel tempo e chiunque violi questa regola è destinato a sparire. Makoto, in lacrime, cerca di fermarlo: è solo allora che capisce di amarlo veramente.

La vita ricomincia normalmente, ma Makoto non riesce a dimenticare i propri sentimenti. D'altra parte, scopre che in seguito all'intervento di Chiaki sulla linea temporale il suo ultimo salto nel tempo non è mai avvenuto, restituendole la possibilità di saltare nel tempo un'altra volta. Decide allora di tornare al momento in cui, nel laboratorio, ha trovato il congegno, cioè all'inizio della storia.

Quando finalmente trova il ragazzo, gli racconta ogni cosa (Chiaki, infatti, ancora non sa che il se stesso futuro le ha rivelato la verità). Poco prima di tornare al proprio mondo, Chiaki la abbraccia, dicendole che la aspetterà nel futuro. Makoto, felice, gli risponde che gli correrà incontro.

 

Fare il riassunto scritto della trama del film, guardare con attenzione il video.

L'interrogazione verterà sull'esposizione orale del filmato, questa dovrà essere fatta con proprietà di linguaggio e lessico ricco e articolato

23/02/2015

Terra! Terra!”

di Francesca Pennacchi1

L'avventura coloniale vissuta da una bambina di otto anni. Cercando di ricostruire lo spirito della sua adolescenza, un'insegnante toscana ricorda i quattro anni trascorsi in Africa Orientale quando parte con la madre e la sorella dalla Toscana per raggiungere il padre in Etiopia. Lui sarà richiamato in guerra e loro tre affronteranno i disagi di un lungo viaggio fino alla prigionia sotto gli inglesi, prima del rimpatrio. La scoperta dei colori e il fascino di una terra misteriosa segnano il passaggio verso la maturità.

Cielo e mare, mare e cielo! Quando guardavo il mio mare che lambiva la vasta spiaggia dorata pensavo che era immenso, ma sempre immaginavo una terra subito oltre l'orizzonte: “Là c'è l'isola di Palmaria, da quella parte c'è l'isola del Tino...” così il babbo mi diceva quando guardavamo il mare; ora non so pensare ad alcuna terra, ho la sensazione di essere perduta in questa sconfinata distesa azzurra. Forse non arriveremo mai da nessuna parte e continueremo a vagare così, in questa infinità di mare e cielo che mi fa pensare a Dio.

La vita di bordo è bella: mai sono stata servita a tavola da camerieri in giacca bianca, gentilissimi, che sembra vogliano esaudire ogni mio desiderio, e mai ho potuto scegliere ciò che mi piace di più; la mamma diceva: “O mangi questa minestra o salti la finestra”, naturalmente scherzava, ma a volte in casa nostra c'era veramente soltanto quella minestra. Quasi mi sento la protagonista di una delle tante fiabe che mi raccontava la nonna. Sono felice ora di vedere sempre mare e cielo e che la terra sia molto lontana, perché niente potrà essere più bello di questa vita, di questa nave che ora sento mia; ho un po' di rimorso però, perché quasi non penso più al babbo che devo raggiungere, né a tutte le persone care che ho lasciato, e perciò di questa mia felicità non parlo a nessuno, neppure a mia sorella.

È arrivato tuttavia il giorno che non volevo arrivasse mai: si profila all'orizzonte una terra. Tutti sono agitati, anche la mamma, che in genere è serena e tranquilla. “Terra! Terra!” gridano tutti, quasi novelli Colombo. Tutti sono felici e anch'io allora mi lascio trascinare dall'euforia generale e cerco di vedere qualcosa di straordinario in quella terra misteriosa che si chiama Africa ma che per ora è soltanto una striscia azzurrina, un po' più scura del mare, che dicono sia l'Egitto.

La striscia azzurrina diventa sempre più terra, finché si vede chiaramente un porto, tante imbarcazioni, tanta gente. La sirena della nave urla a festa, tutti urlano di gioia quando la nave attracca nel porto.

Porto Said è veramente un luogo caratteristico: una schiera di imbarcazioni si avvicinano alla nave cariche di gente nera e nuda e di oggetti colorati: tappeti, porcellane, borse, vestiti stravaganti... tutto ai miei occhi è meraviglioso! I disegni delle stoffe e delle porcellane hanno l'incanto delle fiabe, come i colori; molti comperano, chi poco e chi tanto, e issano a bordo, servendosi di corde, cesti carichi di tutto, ma la mamma dice che noi non possiamo comperare nulla e Miriam ed io non replichiamo, perché sappiamo bene quanti sacrifici ha sempre fatto la mamma e che il babbo è dovuto venire in Africa per lavorare, così ci limitiamo a guardare gli altri comperare, come quando, nella 'Bottega degli Svizzeri ', che si apriva sulla piazza del mio paese, guardavamo con desiderio e ammirazione il banco delle paste chiuso da uno spesso vetro, come se custodisse un tesoro, e neppure osavamo pensare che potessero essere lì anche per noi.

1 nata a Marina di Carrara (Massa) nel 1929. Memoria di pp. 87, Finalista al Premio Pieve – Banca Toscana 2006. L’estratto è compreso fra pag. 5 e pag. 9 del dattiloscritto.

Anche il giorno dello sbarco a Massaua è arrivato ed io ho paura, non so neppure di cosa, so solo che tutta la mia gioia è svanita e che sento il bisogno di stare vicina alla mamma e a mia sorella che invidio, perché vedo eccitata e gioiosa. “Tutto è pronto, dice la mamma, andiamo sul ponte a vedere se riusciamo ad individuare il babbo sulla banchina del porto; chi lo vedrà per prima?”. Io no di certo, e penso con sgomento che forse non lo riconoscerò. A terra una massa di gente si muove come un mare scuro sotto la luce infuocata di un sole troppo lucente; la nave è ora vicinissima alla banchina, non si distinguono ancora i volti tra la folla, ma si sentono le voci: nomi e nomi rimbalzano nell'aria dalla nave alla banchina e da questa alla nave. Io tendo l'orecchio per udire il mio nome o quello della mamma o di mia sorella, ma nessuno ci chiama e il mio cuore continua a battere sempre più forte. “Lo vedi il babbo?” mi chiede Miriam sorridente; certamente non le batte così forte il cuore come a me; si sporge dal parapetto “È là... mi sembra proprio lui!” Ma io non lo vedo e guardo inutilmente nel punto dove guarda lei; nessun volto né persona mi è famigliare.

I passeggeri cominciano a scendere dalla nave: ognuno fa ampi gesti a qualcun altro e grida un nome, più nomi, e poi si gettano l'uno nelle braccia di un altro: c'è chi piange e chi ride, chi piange e ride insieme; gli abbracci sono lunghi e stretti come quello nel quale mi aveva tenuta legata a sé a lungo la nonna in quell'alba che ormai mi sembra tanto lontana.

Il babbo non si vede né ci chiama, il ponte della nave piano piano si svuota e si dirada anche la gente sulla banchina; rimangono soltanto i negretti, che continuano a tuffarsi per prendere in fondo al mare le monete gettatevi da molte persone più per divertimento che per generosità. Noi, la mamma io e mia sorella, siamo ancora qui, appoggiate al parapetto della nave, protese verso terra, dove ormai sappiamo non ci aspetta nessuno.

Il sole indifferente brucia tutto, l'aria è quasi irrespirabile e noi continuiamo a guardare la terra infocata che mi sembra voglia respingerci. Non parliamo, chissà se anche la mamma e Miriam sentono questo vuoto allo stomaco che mi fa stare così male? Un ufficiale si avvicina a noi col viso serio e ci invita gentilmente a scendere nel salone ormai vuoto, dove potremo stare all'ombra, perché, dice, il sole dell'Africa può anche uccidere; parla poi sottovoce con la mamma, che mi appare tesa, triste e molto preoccupata, anche se si rivolge a me e a Miriam con un sorriso: “Ora scenderemo a terra perché non possiamo stare sulla nave più a lungo; il babbo avrà avuto qualche contrattempo e arriverà certamente più tardi, ma io conosco un signore di Carrara che abita proprio qua a Massaua e sono certa che ci ospiterà fino all'arrivo del babbo”. Lo sgomento che mi aveva provocato quel doloroso vuoto allo stomaco si attenua un po', tuttavia lascio esitante la nave, dove ormai mi sentivo al sicuro come a casa mia.

Alla dogana la mamma va a parlare con un personaggio importante, e deve essere davvero importante se la fa aspettare tanto prima di riceverla! Quando finalmente la porta si apre e possiamo entrare, il signore ci accoglie con gentilezza e ascolta attento la mamma, poi sorride: “Conosciamo tutti il signore di cui parla, perché abita proprio vicino al porto; lo mando subito a chiamare”. Ora mi sento tranquillizzata e posso guardarmi intorno: c'è tanta gente nera che mi fa un po' paura, forse perché nelle fiabe della nonna c'era quasi sempre un uomo nero cattivo, pronto a mettere nel sacco i bambini per portarseli via... se fosse qui la mia nonna! Vorrei tornare indietro e rivedere i miei monti azzurrini, alti verso il cielo, abbracciare la mia città; vorrei rivedere il mio mare, il giardino ombroso della mia casa... come tutto è diverso qui! Molte persone si sentono male per il gran caldo, addirittura dicono che una signora sia morta appena scesa dalla nave per un 'colpo di calore'; così la mia angoscia, diminuita per le parole rassicuranti della mamma, aumenta di nuovo, tanto più che, se guardo i suoi occhi, li vedo più verdi e più grandi, come quando a casa non riceveva la solita lettera del babbo o non aveva i soldi sufficienti per fare la spesa. “Sù bambine, ecco il signore di cui vi ho parlato, salutate!” ci esorta la mamma mentre si avvicina ad un uomo alto e biondo che a me sembra un angelo e che ci parla con cordialità, parlando nel dialetto del nostro bel paese. È meraviglioso sentire il dialetto della nostra gente! Mi sembra tanto dolce! E pensare che tutti dicono che il carrarese è un brutto dialetto, dai suoni duri e taglienti come il marmo delle nostre montagne! Ora

mi accarezza rassicurandomi e mi dispiace che, rivolgendosi a me e a mia sorella, il signore alto e biondo parli in italiano: “Andiamo! A casa mia c'è ombra e tutta la famiglia vi aspetta”.

La casa di legno verniciato di verde è bella, è fresca e sulla grande veranda che si protende sul mare c'è una lunga tavola apparecchiata intorno alla quale sono seduti tre simpatici ragazzi, due maschi ed una femmina. I maschi sono più grandi di me e mia sorella ma la bambina deve avere la mia stessa età; ci vengono incontro come se ci avessero sempre conosciuto: “Benvenute! Fa molto caldo qui ma poi ci si abitua” “Qui sul mare si sta bene e si può fare il bagno quando si vuole” “Come sarebbe bello se poteste restare qui!” Le voci che si intrecciano in un cinguettio allegro sono amiche e rassicuranti. Mi sento sicura infatti, ora non voglio più pensare che il babbo potrebbe non arrivare mai e neppure che, se arriverà, dovrò andare via da qua. È terribile pensare di dover partire senza conoscere la meta dove si è diretti. Dove andremo? Siamo sole fuori da questa casa, ci troviamo in una terra sconosciuta che si chiama Africa, una terra rovente, piena di mosche e di gente nera, dove anche il sole è cattivo!

Un rumore fuori della porta, voci, domande, risposte: “È qua?” “Si, è, qua, è arrivato finalmente!” Il cuore mi batte forte e non mi muovo, anche se dovrei correre verso la porta, verso quell'uomo appena entrato, che ha la barba lunga, è sudato e agitatissimo e cerca con i suoi occhi chiari, che ricordo bene, qualcuno... ha lo sguardo timoroso di un bambino che aspetta una punizione; è il mio babbo, ma soltanto gli occhi mi sono famigliari, per il resto scruto un estraneo... del resto sono già due anni che è lontano da me! Quasi mi mette soggezione e non so se andargli incontro e abbracciarlo, così lascio che sia mia sorella a saltargli al collo per prima, poi anch'io mi avvicino e mi stringo a lui cercando di sentire ancora quella felicità che provavo ogni volta che sognavo questo momento.

Tutti seduti a tavola ascoltiamo il suo racconto col quale cerca di giustificare il ritardo: ha avuto un litigio col socio, a cui aveva affidato una notevole somma perché facesse trasformare un "tucul" in una casa degna di accoglierci, ma il socio i soldi li aveva spesi per sé e il tucul era rimasto tale, una baracca di legno paglia e fango; la mamma non commenta il racconto ma il suo volto ha un'espressione preoccupata e di disapprovazione che preoccupa anche me, ma quando sento che faremo un lungo viaggio in automobile, fino all' Asmara, dove ci fermeremo in un albergo, mi rallegro, perché non sono mai stata in un albergo e nemmeno ho mai viaggiato in automobile, così non sento più quello sgomento, che ormai mi fa compagnia molto spesso, quando saluto i nostri ospiti che mi sono già cari come familiari. È veramente volubile il cuore umano!

La strada è polverosa e corre dritta in mezzo a sconfinate lande di erba secca dove immagino di veder comparire da un momento all'altro qualche animale feroce e orde di negri ostili. Tra l'erba della pianura silenziosa e solitaria si ergono, qua e là, grossi alberi con i rami allargati a ombrello, dai quali pendono come dei piccoli cesti scuri, che il babbo dice essere nidi di uccelli. C'è un silenzio così profondo! Mai ho avuto modo di avvertire tanto silenzio! Vedo gli uccelli accovacciati sui rami, immobili e silenziosi, come se fossero scolpiti in pietra, e mi chiedo perché non volino e non cinguettino come facevano gli uccelli nei giardini o nei boschi del mio paese; questi sembra siano in attesa di qualche cosa... ma che cosa può succedere in quest'aria immobile, dove domina la solitudine, se non qualcosa di spaventoso? Anche la distesa sconfinata di erba è immobile nell'attesa ed io sento in me, mescolato alla paura, il desiderio di veder accadere qualcosa... ecco finalmente un movimento di creature scure, fitte fitte, l'una vicina all'altra, alcune a cavalcioni di altre più grosse: “Non è niente di terribile! Sono simpaticissime scimmie” si affretta a spiegare il babbo e aggiunge: “Questa è la Piana di Gobò, il regno di questi animali, guardate! Afferrano delle zolle per tirarcele dietro!” E infatti il rumore innaturale dell'automobile le ha disturbate e, spaventate, cercano di difendersi come possono e lanciano contro il mostro nero rumoroso e inconsueto zolle di terra. Sono meravigliata da questo spettacolo che mai avrei potuto immaginare, ma mi sento anche mortificata da un senso di colpa perché con la nostra presenza abbiamo disturbato quelle creature. Tutto mi sembra irreale e forse ad un tratto tutto sparirà, svanirà come un sogno... “Chiudete i finestrini!” grida l'autista. Io non capisco che cosa stia succedendo: sembra che qualcosa mitragli la macchina, non si vede niente in particolare, solo piccoli oggetti scuri, che picchiano con forza contro i vetri dei

finestrini, le portiere, il cofano; oggetti così numerosi che oscurano tutto intorno a noi. L'auto si è fermata ed io sono impietrita, non so bene se dalla meraviglia o dalla paura. Ad un tratto come straordinariamente l'avvenimento è cominciato altrettanto straordinariamente finisce: sulla macchina ora si distinguono un mucchio di cavallette morte e intorno non c'è più un filo d'erba, mentre nel cielo una grande nube scura si allontana facendosi via via sempre più piccola fino a scomparire. Si riparte.

Mi aspetto che capiti ancora qualcosa di inimmaginabile, che da qualche parte piombi su di noi qualcosa che ora se ne sta in agguato, ma su tutto regna di nuovo il silenzio, un silenzio pieno di attesa, di paura, che io cerco di allontanare riandando col pensiero alla mia casa lontana, oltre questa prateria immensa, oltre l'oceano, alla mia nonna che temo di non ritrovare mai più, all'albero di fico di cui conoscevo ogni ramo, ogni foglia, alle scalette polverose che scendevano dal giardino nella via rintronata dalle ruote dei carri carichi di marmo.

 

 

 Lune nuove

di Giovanni Terreri1

Le "lune nuove" segnano i passaggi di maturazione di un trentenne che trascorre un mese in India. Cerca se stesso nel fumo, nei paesaggi montani e cittadini, nonché nei contatti umani, sempre in bilico tra l'osservazione della realtà esterna e l'analisi della verità interiore. Quando torna ad Arezzo, porta con sé un'energia nuova: deve affrontare gli strascichi di una separazione matrimoniale che lo tiene lontano dal figlio molto amato.

L’Andata

Karachi, 22/9/83, mattina

Come di solito, pensavo molto velocemente, e una ridda di emozioni balenava dentro di me. Non avevo molto fumato, e ritenevo di aver fatto bene; combattevo con alcune paranoie non poco fastidiose che cercavano di mettermi sotto. Erano manifestazioni palesi dell’ansia che non mi abbandonava mai, e che era stata acuita dalla partenza (era molto forte a Roma). Non riuscivo a sciogliermi come avrei sperato, anche se la cosa non mi sgomentava più di tanto, poiché eravamo appena arrivati. Scrivere mi aiutava un po’, ed ero deciso a resistere, e a condurre la situazione nel modo migliore. Ogni tanto parlavamo (Mario stava disegnando); mi diceva di avere qualche problema psico-fisico: accelerazione cardiaca, ansia, paura, e accennava anche ad alcuni momenti già trascorsi, come l’emozione del volo (il primo per lui), il viaggio aereo, molto lungo e stancante, la mancanza di riposo (l’ambientamento, pensai io). Era difficile registrare tutte le cose; se seguivo un filo di discorso (per scrivere) ne perdevo molti altri, era inevitabile. A volte riuscivo a stare quasi bene, con mia grande soddisfazione. Pensai che avrei avuto molto da combattere per riuscire a procedere nel modo ottimale; i miei “nemici” erano agguerriti. “Nemici”, qui, indica il malessere, la paura, la disperazione, sempre in agguato. Ma ero abbastanza forte; mi sembrava che Mario avesse qualche difficoltà a reprimere il suo disagio, peraltro leggero.

Pensavo a quando avrei riletto queste righe (ogni tanto scacciavo via qualche immagine molesta), all’impressione che mi avrebbero fatto, a cosa mi avrebbero trasmesso. Forse avrei visto meglio la mia situazione, con più obiettività, quasi dall’esterno. Mi tranquillizzai un po’, e pensai che era giusto scrivere usando tempi passati (sentii il rombo di un aereoplano), poiché, come tutti sanno, l’attimo presente diventa subito passato, “già visto”, si allontana ad una velocità impensabile. Il mio viaggio in India era nato per darmi un’occasione più “forte” di affrontare me stesso, ed era quello che stava succedendo; l’impegno era grosso, e mi aspettavo crisi profonde su tutto il mio “apparato psico-fisico”. Mario ribadì la sua sfida alla vita: “Uomo rischia (alludeva alla sua macchina fotografica), ma vince con l’intelligenza”; a volte mi aveva dato lezioni teorico-pratiche di forza, di volontà, nell’affrontare tutte le situazioni, lezioni che apprezzavo molto.

In aereo eravamo stati sempre bene, avevamo mangiato e scherzato con molto piacere; anche dopo non c’erano stati molti problemi, e avevamo fatto da poco una buona colazione, con molto thè. Mi accennò all’uomo grasso libanese con moglie e due figli che scappava dal suo paese, “In Libano molto commercio di eroina”, diceva, ed io pensai che le sostanze stupefacenti non mi interessavano molto (buona cosa), e le vedevo come aiuti nella mia analisi di me stesso, nella mia ricerca. Non

1 nato ad Arezzo nel 1954. Diario di pp. 141 finalista al Premio Pieve - Banca Toscana 2002. Titolo originale Le lune nuove. L’estratto è compreso fra pag. 3 e pag. 8 del dattiloscritto.

In La storia siamo noi Il Tirreno, 27 Agosto 2003 pag. 27

voglio entrare qui nel merito di questa famosa ricerca, anche se ne ho avuto la tentazione, sarebbe un po’ difficile. Inoltre, per il vero, mi interessava, se mai, solo il “fumo”.

Ora eravamo molto tranquilli, e parlavamo di questioni pratiche riguardanti il bagaglio, e altre cose. Sentimmo bussare, ma io controllai molto il timore: Mario si avviò verso il bagno, ed io aprii: un uomo con barba (un Sihk, seppi dopo) mi sorrise scusandosi; - Other room?-, chiesi io, e lui annuì, sempre sorridendo. Molte persone avevano bussato alla nostra porta, quella mattina, ed io iniziai a pensare che sbagliassero veramente, indiani e pakistani (prima avevo pensato che per dispetto o per altri motivi lo facessero apposta). Prima Mario aveva accennato allo strano benessere che dà il mangiare una pallina d’oppio, ma la cosa m’interessava “tiepidamente”; qualcun altro, con la mia massima indifferenza, toccò e mosse la maniglia. Pensai con piacere che iniziavo ad adattarmi. Una mano ignota fece cadere il cartello “do not disturb”, Mario scosse la testa, “forse lo fanno apposta”, disse. Mi venne da ridere! Parlò di Silvio, ed io pensai con gioia leggera agli amici, ed alle nostre situazioni aretine.

Era un po’ che pensavo di andare a scrivere fuori, seduto sul gradino del marciapiede (interno all’hotel) sul quale davano le porte. Pensai che forse Mario avrebbe avuto l’impressione che io stessi male e volessi stare solo: infatti era sempre lui che iniziava a parlare (ora parlava di nuovo del batticuore e dell’ansia), ma gli avrei detto che stavo bene, e che scrivere mi aiutava a stare tranquillo. Così feci, e gli chiarii la mia situazione; - buona cosa-, sentenziò. Era un ragazzo molto saggio, l’avevo sempre pensato, molto bravo. Fuori, mi sarei fatto vedere anche leggere la copia dello “Holj Quran” che avevamo in camera (non solo per farmi vedere, ma anche e soprattutto perché lo volevo fare)

Stare seduto fuori mi colpì lievemente, come un buffetto amichevole sulla guancia; la realtà è sempre diversa (poco o molto, a seconda dei casi) dalla immaginazione; “reale e ideale”, grande contrasto, era stato per me un problema molto più grosso una volta, ero migliorato.

La situazione era buona, molti uomini variamente vestiti passeggiavano o stavano seduti tranquillamente sotto i piccoli portici davanti alle stanze. C’era un leggero vento, ma faceva molto caldo, rumore di clacson e di macchine sulla strada, lì vicino, gracchiare di corvi, incessante, rumori e odori nell’aria. Ero felice di aver portato il blocco di fogli lisci e il lapis, e di scrivere, era la prima volta, e avevo anche pensato che qualcuno, leggendo, avrebbe potuto dare un’occhiata dentro di me, dal momento che sono una persona estremamente chiusa ed introversa, e tendo a nascondere le mie storie. Sorridendo, cercai di immaginare come gli altri mi vedevano, e come, chi mi conosceva, vedeva “le storie di Giovanni”!

Sapevo che mio figlio Marco (e anche altre persone e cose) mi sarebbe mancato atrocemente, ma ventinove giorni passano presto, già avevano iniziato a scorrere.

A volte può servire molto pensare a come ci vedono gli altri (senza farsene una fissazione!); l’immagine che diamo di noi stessi non sempre ci è del tutto presente, ed invece ha la sua importanza.

Ripresi a scrivere dopo una lunga sosta, poiché alcuni ragazzi che lavoravano all’hotel erano venuti da me, e avevamo iniziato a discorrere molto amichevolmente; poi Mario dovette fare un ritratto ad un loro amico; gli demmo anche un po’ del nostro parmigiano, ma non piacque molto. Mentre tutto ciò avveniva io mi sentivo molto bene, e pensavo che il viaggio era impegnativo ma interessante, e che l’avevo intrapreso proprio per mettermi alla prova e scuotermi un po’. Persi molti pensieri, però, cioè non riuscii a fissarli sulla carta; solo uno su moltissimi veniva fermato. A volte dimenticavo, o non mi rendevo bene conto, che Mario e io scoprivamo i vari aspetti della situazione insieme; ognuno faceva le sue scoperte, ovviamente a modo suo, novità e adattamento c’erano per entrambi, lui non sapeva già tutto in anticipo!

Ogni minuto che passa, mi immergo sempre di più nella situazione (come previsto). Forse la fama di Mario “artist” ci darà qualche piccolo problema!

Karachi, 22 settembre, sera

Dopo cena eravamo molto stanchi. Giornata assolutamente inesprimibile! A pranzo ci siamo trovati con due ragazzi italiani, una coppia, e abbiamo fatto un giro in Karachi città, arrivando con l’autobus.

Grande immersione nella situazione, per me, e crollo di tutti gli schemi, situazione molto strana, con frequenti”flash” messicani,che facevano scattare il meccanismo dei ricordi coniugali, ovvero le storie con Marlene (con viaggi in Messico come preludio all’ultimo atto). Situazione analoghe: sporcizia, caos indescrivibile, popolo nero, mercati fitti e sudicissimi, colazioni, pranzi, odori buoni e cattivi, sempre carichi….

Io scrivo ma tralascio l’argomento principale cioè la lotta che si svolge dentro di me, fra il partito del disastro q quello del buon proseguimento. Molto spesso paranoie mortali sfrecciano nella mia mente, momenti di grande disagio (rammarico per aver bevuto aranciata per la strada, timori di gravi disturbi), nostalgia (Marco, casa e altro). Anche i buoni momenti, sostanziale tenuta, però pressione “ nemica” sempre notevole. Momenti di rilassamento. Mario dorme. Devo imparare a guardare molto bene al presente, per muovermi bene e sciogliermi nelle situazioni, e comunque, se la cosa mi fa stare più tranquillo, devo stare più attento. Balenano in mente frammenti di Karaki: bambini, storpi, elemosinanti, vecchi, barbieri, caos, macchine, clacson, cornacchie e altri uccelli, la cattedrale cattolica, tutto!! Volti, curiosità e diffidenza, risate, non visto neanche un occidentale! Momenti di calore umano e di simpatia con pakistani. Immagini di stamattina o di qualche secolo fa? No? Storia di fumo con tassista, spini da soli e con amici, prime fotografie. Forse, se non ero così “ preparato”, non avrei retto l’urto con Karaki e il suo brulicare di vita e di sofferenza, ho comunque molto peggio.

Cena, tutto molto piccante, “ bubble up” fuori carta, dolce pakistano cremoso e speziato buonissimo, thè tutto il giorno, immagini del “ Cafè Seena”, sudicio, giubbe sporchissime dei camerieri, sudore, gente non ci capisce quando parliamo in inglese, altri che parlano qualche parola di italiano, venditore di cose varie dentro l’hotel, filosofo, intelligente e ironico, che parla molte lingue, spagnolo e inglese bene, che molto scoppia a ridere. Mario si muove con estrema brillantezza, io rido spesso.

La camera è con aria condizionata, moquette, cesso e doccia, (separati), hotel molto grande e piuttosto efficiente.

Per lunghi tratti la botta è stata di notevole potenza, ho sentito grandemente vibrazioni interne (corporee? che normalmente non sento? Non so,). Momenti di immobilità e cervello alle corde, ma sempre buona lucidità e controllo, anzi, maggior spigliatezza! La P.I.A. ci ha obbligato alla sosta a Karachi, ma ci ha passato tutto, pernottamento, pasti, trasporto; qualche mancia (le prime

eccessive), poche spese, voluttuarie (aranciata maledetta!).

Situazione presente buona, sballo notevole, grande stanchezza. Cerco di concentrarmi sul momento presente e su come mi sento “qui ed ora”! Molte immagini del passato, che si presentano come frammenti di specchi, o rottami che riemergono dal mare, frammischiati a pensieri non gradevoli e timori di vario genere. Ma è importante capire che, anche se a rigore non si può sfuggire, il passato è passato; fa sentire il suo influsso, inevitabile e potente, ma occorre andare avanti, avanti! Sindacato e ufficio, casa nuova dove vivo da solo e i miei, problemi e volti di Arezzo, ora lontani, ora viaggio in Oriente, ora Karachi! Prima Mario ha detto: - Solo un giorno, grande intensità! Questo viaggio ci cambierà molto. - Credo abbia ragione, e poi lo sapevo da me! Penso a Lorenzo, Lidia, Alma, gita all’Argentario una domenica di giugno, uno strano periodo, 1983, anno sempre stranissimo, sono successe moltissime cose, tutte grandi, enormi!

Da oggi luna vecchia, calante. Ripenso alle ultime lune nuove, hanno sempre segnato gli ultimi periodi, li hanno quasi scanditi: luna nuova di luglio, vista ad Ancona, aria di nuovi amori, prima Roberta, poi Alma (notte assurda in cui non-dormii da lei!), periodo in cui ebbi molto a soffrire; luna di agosto, vista ai magici “cappuccini”.

 

 

 I ricordi di un emigrante pievano

di Dante Crescioli1

Nella breve memoria di un minatore emigrato da Pieve Santo Stefano in Argentina nel dopoguerra, la nostalgia pungente del paese d’origine, con i giochi dell’infanzia sulle sponde del Tevere.

Buenos [Aires] 15/1/91

A 26 anni dopo aver sopportato 5 anni di militare in guerra e, prigionia in Africa, il giorno 7 gennaio 1948 partii da Genova emigrando in Argentina.

Oltre 13.000 sono i km. aerei e, quasi 15 le ore di volo che separano l’attuale residenza dal mio paese d’origine e, 43 sono gli anni ormai trascorsi da che mi allontanai.

Ricordi!!!!.... quanti!!!!.... quanta miseria si allora, ma anche quanta preziosa esperienza e rara astuzia imparata nel mio paese anche se a caro prezzo. Voglio dire che, almeno per me, nessuna scuola letterata o, tanto meno l’attuale presunta progressiva e migliore condizione economica di illudente benessere, potrebbero insegnare e giovarmi positivamente di più, quanto le povere restrizioni di quei tempi, mi regalarono in termini di scaltrezza, di capacità e di sopravvivenza.

Sono nato a Pieve S. Stefano da modesta famiglia di Artisti operai nel 1921, furono nell’era i tempi in cui la vivace semplicità e l’onestà intuitiva risolveva con il sorriso sulle labbra e con rara modestia ogni problema sia duro che durissimo, sicuramente incoscienti, ma era, è vero, la prematura giovinezza.

I ricordi tutt’ora sempre più prepotentemente vivi e presenti del tempo trascorso da ragazzo nel mio Paese hanno un incalcolabile e profondo valore di rispetto, ed emotivo. La loro interessante sintesi ha valore per me assolutamente superiore ad ogni altra cosa al mondo. Ciò è tanto vero che spesso ricorrendo nel pensiero, e pensando e ripensando, mi convinco sempre più che in generale l’uomo vero, l’uomo forte, l’uomo sicuro di se, l’uomo che sa vincere alle prese dirette con ogni più dura realtà, si realizza solo e quasi sempre con l’aver conosciuto quanto piu l’acuta sofferenza, l’esperienza di povere limitazioni di disponibilità economica, ma con grande forza d’animo e ferma volontà.

Quello che è importante è arrivare a vincere ad ogni costo nella vita, ed io temo che non sia altrettanto efficace con condizioni di facile benessere, realizzato dalla volontà di altri prima di noi. La conoscenza delle proprie capacità e dei propri limiti, per esempio nell’affrontare e risolvere situazioni difficili, oltre che procurare soddisfazione e gioia a noi stessi, sprona la mente, ( senza scampo ) alla ricerca creativa di migliori soluzioni e, talvolta non è raro che si arrivi a risultati isperati.

Non è detto per’altro che tutti i problemi che si presentano debbono per forza essere risolti nella ricerca di successi economici, è molto più importante sentirsi soddisfatti della propria onestà e della propria capacità, che vale oltre la ricchezza venale.

La vita degli emigranti come bene si può immaginare non si presenta sempre tanto facile, certamente molto dipende, non tanto da una condizione psicofisica, quanto da una sicurezza di capacità di mestiere e di matura preparazione professionale. Io per esempio andai quasi per scherzo e, non partii all’avventura vera e propria in cerca di lavoro, ricordo che ne fui al contrario, contattato e richiesto con tanto di contratto accettato, da me firmato ad Arezzo prima della mia

1 nato a Pieve Santo Stefano (Arezzo) nel 1921. Autobiografia di pp. 42 inviata al concorso 1992. L’estratto è compreso fra pag. 1 e pag. 5 del manoscritto.

partenza da Pieve. Tuttavia, diverso da come vige oggi in Italia, io ed altri fummo obbligatoriamente sottoposti a scrupolosa e rigorosa visita medica, e con tanto di ineccepibile documentazione completa di certificati penali e civili in perfetta regola, dopodichè, ciò non escludeva che tutto poteva presentarsi liscio, poiché sapevamo che problemi di vario tipo, quali il cambio di abitudini, di mentalità, di lingua e di emisfero.

Quella Pieve dei miei pensieri, quella Pieve dei miei occhi quasi allucinati e veggenti oggi non c’è più, è grazie ad essa che, nella mia giovinezza mi ha tanto insegnato.

La mia Pieve. La mia Pieve quella la cui originalità diversa da oggi non c’è più. Peccato che la Pieve si presenti ora ripetuta e più o meno uguale ad altri paesi e città.

I soliti scatoloni immotivati e lisci di cemento, che fanno con ogni dove, un tutto eguale, così come se tutti i viventi si chiamassero con lo stesso nome, perché in realtà nessuno ha alcun che di diverso, bensì la stessa fisionomia.

Ma sapete signori miei cosa è, quale valore rappresenti l’identità particolare non ripetuta di una cosa?.... Ebbene quella Pieve dai colori stanchi ma caldi delle vecchie case cittadine, le docce spesso versanti l’acqua sporgenti dalle gronde dei tetti, tutti sbalzanti a linee, a piani e altezze diverse, i tre Archi, il colonnato Farmacia Baldassarri, Perugini, Gamberone ( negozio di cocci cotti e vecchio Trombone della Banda ) il colonnato Olivoni con sotto la Barbieria di Bertino – Santi con il suo orologio della Torre Comunale il Vecchio ma bello palazzo Comunale, quello Ortolani,del Santini, del [Doge] nella Piazza Plinio Pell.ni.

 

 

 Mariuccia e Juan

di Anna Maria Caredio1

Aperta da un lungo quadro genealogico, in cui si racconta di una famiglia che emigra e poi torna dall'Uruguay, l'autobiografia di una pensionata lucchese racconta principalmente il mondo armonico della propria infanzia e adolescenza.

Il giovane biondo si chiamava Edgardo ed era nato a Montevideo ventidue anni prima.

Suo padre dom Juan Cavedio, era piemontese e sua madre Mariuccia Franchi era nata a Fornoli.

Entrambi giovanissimi avevano deciso di andare in America e l’America allora era quella del Sud. Si erano conosciuti “in sul barco”. Giovanni, divenuto subito Juan, aveva con sé il fratello minore, Michele; Maria chiamata più spesso Mariuccia o Mariù, viaggiava con tre sorelle, Eleonora, Creusa, Argentina. Lei era la più giovane.

In quella lunga traversata si erano conosciuti e piaciuti, così quando dopo tre mesi di navigazione erano sbarcati a Montevideo avevano deciso di fidanzarsi.

Era il 1879. Avevano aspettato di avere un lavoro sicuro e un piccolo gruzzolo poi si erano sposati e nel giugno del 1886 era nato in Isla de flores il loro primo figlio, Edgardo. Subito dopo era nata una bambina e più tardi un terzo figlio che era stato chiamato Amerigo, per riconoscenza a quell’America alla quale avevano voluto bene.

Ora erano tornati definitivamente con un buon gruzzolo che avrebbe loro permesso di vivere di rendita per il resto della vita e intanto si stavano costruendo una casa a Fornoli, dove Mariuccia era nata e dove c’era più sole e più campagna.

Dom Juan aveva da poco compiuto cinquant’anni e Mariuccia non li aveva ancora.

In via di Letizia, il biglietto di Mariuccia Franchi aveva fatto andare tutti in visibilio. Le sorelle fremevano, Alice sorrideva e faceva progetti su come accogliere la famiglia Caredio, Teresa, come sempre non diceva niente.

Anche Adolfo non disse niente, ma a gran velocità, preparò il calesse e partì per Lucca.

Margherita, alla quale le giornate in via sant’Andrea, per la prima volta erano sembrate lunghe e vuote, appena vide il padre e seppe cosa era avvenuto, non chiese altro, preparò velocemente le sue cose e salì come trasognata sul calesse che partì al galoppo verso la strada che fiancheggiava il Serchio.

Lungo il viaggio, il padre la mise al corrente di tutto ciò che la zia Alice aveva saputo riguardo alla famiglia Caredio e al loro figlio Edgardo.

Era stato deciso che l’incontro sarebbe avvenuto la domenica dopo e si sarebbe fatto in casa d’Alceste.

Adolfo voleva dare questa visione grande e allargata della famiglia Pellegrini, poi, lui e Alceste, avevano sempre condiviso tutto.

C’erano anche altri motivi di ordine pratico: Alceste aveva un bel salotto che dava sul giardino e di lì si sarebbero goduti il fresco delle piante e del Fiume.

Poi sarebbero andati tutti a prendere il the, sulla Torretta.

1 nata a Bagni di Lucca nel 1927. Autobiografia di pp. 384 inviata al concorso 2003. L’estratto è compreso fra pag. 26 e pag. 33

A.M.CAREDIO BENAYÀ, Il ponte delle catene, Roma, Artemide Edizioni, 2004.

C’era anche un altro motivo: Giuseppina era molto adatta a ricevere, sapeva porgere e sorridere, mentre Teresa, non amava le feste né la gente.

Così le fu evitato tutto questo e fu già tanto se, alla fine, accompagnata dalla figlia Gisela partecipò all’incontro. Fu quella, una delle rare volte che lasciò la sua casa al primo piano di via Letizia.

Alice con Lina e Michele un’ora prima erano già scesi in casa d’Alceste dove le quattro cugine non stavano più nella pelle; Adolfo e Alceste erano in attesa sulla porta di casa vestiti di scuro.

Margherita volle aspettare fino all’ultimo momento ed era andata a prenderla, per timore che facesse tardi, la zia Alice.

La famiglia Caredio, era arrivata puntuale, con la carrozza di Dondolino; insieme ai genitori, c’era Edgardo, la sorella Clementina e Americo, un adolescente magro e spaurito.

Edgardo era magro e di media statura con un ciuffo biondo e ondulato che gli scendeva sulla fronte; Clementina, era una ragazzina minuta dal viso grazioso e una criniera di capelli crespi e ramati appuntata sulle spalle; gli occhi verdi erano spesso tenuti socchiusi, per una forte miopia.

Tutti erano eleganti: Mariuccia con la veletta e il ventaglio d’avorio che le uruguaniane non abbandonano mai, Juan con la bombetta, il bastone dal pomo d’argento, i guanti bianchi tenuti in mano, sembrava un principe.

Si piacquero. Si piacquero tutti reciprocamente e tutte le ragazze Pellegrini, sorelle e cugine, si innamorarono un poco di questo giovane timido, con gli occhi così celesti e quell’accento leggermente straniero. Persino Lina non trovò niente da ridire e saputo che non sapeva ballare, gli disse categorica che gli avrebbe insegnato lei e questo le valse un’occhiata severa di Michele che giudicava quella proposta, una sfacciataggine che aveva fatto arrossire di colpo il giovane fidanzato.

Più tardi, Michele redarguì anche Margherita perché, disse, nel sedersi, aggiustandosi le pieghe dell’abito si era scoperta, per un attimo, la caviglia.

L’incontro rese tutti soddisfatti.

I due giovani che non si erano neppure sfiorati e si erano scambiati appena poche parole, erano luminosi e i loro occhi non avevano smesso di cercarsi per tutto il pomeriggio.

Era una domenica del 1908.

La domenica dopo, Edgardo che era stato invitato a pranzo, era salito per la prima volta le scale della casa di Margherita.

Tutti avevano contribuito a cucinare le cose migliori.

Dopo pranzo, Margherita e le sorelle, lo avevano trascinato nel lungo corridoio che attraversava tutto l’appartamento e suonando a turno il pianoforte lo avevano iniziato al ballo.

La sera, tutti erano felici e commentavano la giornata.

Teresa che non parlava mai disse: “A desinare, non ha toccato il pane: ha mangiato tutto schietto; deve essere un goloso.”

Le ragazze restarono male; ma Alice che la conosceva bene, disse loro allegramente: “E’ una fortuna: vuol dire che è l’unico difetto che è riuscita a trovargli.”

Mariuccia Franchi che da Juan, spesso era chiamata anche Mariù, nei giorni che seguirono la visita a casa dei Pellegrini, prese carta e penna e scrisse a Montevideo per annunciare alle sorelle, agli amici e ai signori Coelli, il fidanzamento di suo figlio Edgardo con la querida, hermosa senorita Margarita Pellegrini di Ponte a Serraglio, illustrandone la bellezza e l’educazione e descrivendone la famiglia e il loro incontro con essa.

Dopo aver passato quasi trent’anni in Uruguay non sapevano più parlare solo italiano e sia lei che Juan, parlarono per il resto della vita, mischiando le due lingue e in casa c’erano molte cose che solo in spagnolo trovavano il loro significato.

Mariuccia era nata a Fornoli.

Il cognome Franchi aveva le sue origini, come molti cognomi della zona, dalle varie invasioni e dominazioni dei tempi lontani.

I Longobardi, i Romani, i Galli, i Celti e appunto, i Franchi.

Molti di loro si mischiarono e si assimilarono alla rada popolazione.

Infatti, quella valle era quasi deserta; solo le montagne intorno erano popolate perché da lassù, potevano difendersi.

Da queste invasioni e convivenze ne era nato un popolo di buon senso, laborioso e intraprendente, quanto prudente e riservato.

Questo fu e restò, il carattere di questa gente, nata nella piana di Fornoli al di qua e al di là del Fiume dove era Chifenti, un paese gemello, ancora più rado di abitazioni, le cui genti erano simili per laboriosità e carattere a quelle di Fornoli.

I Franchi erano un popolo che si distingueva per la sua fierezza e a tutt’oggi, qui, un uomo coraggioso, viene denominato un uomo “franco”.

Così la famiglia pensò sempre che il loro cognome veniva dalla loro storia.

PierAntonio, un Franchi di questo ceppo era nato a Chifenti, il paese al di là del Fiume, e aveva sposato Clementina.

Avevano avuto cinque figli: Zeffirina, Gesualda, Amabile, Francesco e Casimiro.

Francesco e Casimiro divennero scalpellini.

Gli Scalpellini erano una categoria di artigiani privilegiata. La scuola degli scalpellini aveva sede a Lucca, vicino all’Anfiteatro, in uno slargo che, nel tempo, era stato chiamato, apposta, Piazza degli Scalpellini.

Lì erano andati i due fratelli ad imparare e maneggiare lo scalpello con forza e leggerezza insieme per saper ondulare e modellare la pietra serena e il marmo.

Francesco e Casimiro erano coetanei e andavano d’accordo, perciò lavorarono sempre insieme.

Francesco s’innamorò di Costanza figlia di Giuseppe Totani e di Zaira che vivevano a Fornoli, dove il Totani svolgeva la funzione di Notaio.

Le nozze avvennero il 17 ottobre del 1842, nella chiesa di Fornoli che già esisteva malgrado, la rada popolazione.

Il sentimento religioso, era stato fin dai tempi del fluire di tanti popoli diversi, un amalgama forte, che li aveva legati e costruire un luogo di culto era una sicurezza e un onore.

La religione, fin d’allora, più che un fatto di fede fu una distinzione e una sicurezza di onestà.

Sta scritto, nei documenti conservati nell’Archivio Parrocchiale che Francesco e Costanza si sposarono senza pubblicazioni per la giovanissima età della sposa bambina.

Giuseppe Totani e Zaira, prima di Costanza, avevano avuto altri bambini, ma tutti erano nati e morti in poche ore, ma dopo qualche anno, quando quasi, non ne aspettavano più, era nata loro questa figlia, ed era sembrato che essa non solo li ripagasse di quelle perdite, ma avesse una vitalità in più, tanto era bella, intelligente e determinata.

Costanza Totani nei Franchi, sposa minorenne, ebbe sette figli: Eleonora, Creusa, Argentina, Mariuccia, Elisa, Argia e Ludovico.

Costanza fin da bambina aveva manifestato un carattere forte e deciso e una grande curiosità delle cose della vita.

Sua madre, Zaira, moglie di Giuseppe Totani Notaio, era analfabeta come tutte le donne dell’epoca e della maggioranza degli uomini.

Nessuno si sarebbe sognato di fare studiare ad una ragazza l’alfabeto e i numeri.

Ma Costanza pretese e ottenne che il padre le insegnasse a leggere, scrivere e far di conto.

Costanza era anche ambiziosa e amava l’avventura.

Una volta sposata, seppe, non si sa come, che in Francia erano molto richieste le balie italiane, così appena nata la prima figlia, si organizzò, e dopo averla allattata per due mesi, l’affidò a Fidalma e partì per Marsilia per andare a fare la balia.

La loro casa era in mezzo alla campagna; l’aveva costruita Francesco; era una casa di pietra e intorno c’erano i loro terreni. Di lato c’era la stalla dove sempre si allevava una mucca e un vitello per la famiglia.

Fidalma era una parente che già aiutava e conosceva la casa, così, Costanza partì la prima volta lasciandole Eleonora, e poi, tornò e ripartì per sette volte.

Fare la balia, non era faticoso, anzi era una specie di vacanza e si guadagnava bene. La balia faceva parte della famiglia che se ne gloriava e la esibiva, vestendola con abiti particolari dai colori chiari, rosa o celesti a seconda se era un bambino o una bambina, e scialli e grembiuli di trina. La balia, doveva solo pensare al bambino, senza affaticarsi, altrimenti, si pensava, il latte si agitava e non nutriva bene.

Costanza era stata subito apprezzata e lei aveva apprezzato quel lavoro che le permetteva di conoscere luoghi, persone e altri modi di vivere.

Tornava a casa, ogni volta felice di rivedere i figli, il marito, i parenti, ma anche perché portava con sé una bella borsa piena di soldi sotto la gonna increspata.

Ma dalle signore francesi che le affidavano i loro bambini e di cui diventava amica e confidente, imparò ad ammirare e conoscere il valore dell’oro e dei gioielli.

Poiché era una donna avveduta e lungimirante, ogni volta che doveva ripartire per casa, accompagnata dalla signora, andava da un gioielliere di sua fiducia e comprava qualcosa da portare a casa, chiudere a chiave nel canterano e preparare così, la dote alle sue figlie.

Man mano che esse crebbero, le mandò tutte ad imparare a leggere e a scrivere, dal prete che a quel tempo era una delle poche persone in grado di farlo.

Diceva “voglio dei figli istruiti”.

Ogni volta che tornava a Marsiglia, ampliava la casa, la migliorava spendendo parte dei suoi risparmi e intanto era, di nuovo, felicemente incinta.

Questa era Costanza.

L’andare a Marsiglia era una sua scelta alla quale Francesco accondiscendeva anche perché non aveva altra scelta.

Non era il bisogno a farla partire o il disamore per la famiglia, ma la voglia di migliorare, e anche la voglia di conoscere altri modi di vivere.

Le figliuole intanto, crescevano e non c’era solo la Fidalma ad accudirle.

Le sorelle di Francesco, Zeffirina e Amabile, avevano lasciato Chifenti dove si erano a suo tempo sposate e si erano stabilite a Fornoli; così pure Casimiro che aveva sposato Giuditta.

Così le figlie di Costanza avevano tante persone intorno e forse, non avere una presenza materna costante le aveva fatte crescere più sicure e più libere. […]

Giovanni Caredio era nato a Montaldo Scarampi, in provincia di Asti il 4 Ottobre 1854 da Domenico Caredio e Caterina Barberis, terzo di sei figli tutti maschi, tranne l’ultima che fu chiamata Angela.

Erano agricoltori, o meglio avevano una vigna, come quasi tutti gli abitanti di lì, dato che il vino era la peculiarità di quella zona del Piemonte.

Poco più che adolescente, insofferente di quella vita che le andava stretta, era voluto andare a lavorare a Torino.

Era intelligente, attento, biondo e gentile d’aspetto e di modi e gli era stato facile trovare da fare il cameriere nei bei Caffè di Torino.

Giovanni però, mentre serviva moscato e cioccolata calda, sui vassoi d’argento, era distratto da altri pensieri.

Torino era bella e accogliente e ci viveva bene, ma non gli bastava, e sentiva che voleva altre cose, e pensava all’America.

Aveva, fin dal primo giorno, risparmiato su ogni stipendio e ogni mancia e voleva andare via prima che scattasse per lui l’obbligo del militare.

In quegli anni, dalle Valli del Pellice, molti erano partiti, costretti da intolleranza religiosa e erano andati in Uruguay.

Erano i Valdesi e per le valli e le colline Piemontesi, si era sparsa la voce di come in quella terra avessero trovato ogni benessere, per cui, ancora, dai loro paesi partivano per andare a stabilirsi là.

Questa cosa, aveva colpito la fantasia di Giovanni che aveva deciso che questo era il luogo dove voleva stabilirsi.

Fu il primo della famiglia a partire, anche se lui non era il primogenito e portò con se, Michele, uno dei fratelli più piccoli.

Negli anni successivi, ad uno ad uno, anche gli altri fratelli, avevano lasciato Montaldo Scarampi, che per il Brasile, chi per l’Argentina e Giann’Antonio andò in California.

Al paese, era restata la sorella Angela per accudire ai genitori e curare la vigna.

Lei aveva anche tenuto le fila, di tutti quei fratelli sparsi per il mondo.

Juan diceva che la famiglia Caredio, era venuta dalla Spagna secoli prima e che il loro cognome Caredios, si era poi, col tempo italianizzato, diventando Caredio.

Nella famiglia si erano conservate molte ricette e usanze spagnole, però lui non si era mai sentito spagnolo e neppure italiano; forse piemontese si, perché quando doveva esprimere certe virtù, come la puntualità o la parola data, diceva con un moto d’orgoglio “sono un piemontese”. Ma dom Juam Caredios anche se non si sentiva spagnolo conservava della Spagna un segreto.

Mariù, avendo incontrato Giovanni, un italiano come lei, era stata la prima a sposarsi. Infatti, uno dei punti fermi di tutte quattro le sorelle, era questo: “Il matrimonio deve essere celebrato in Italia, al paese, coi genitori”.

Così le sorelle, dovettero aspettare di trovarsi un fidanzato italiano perché, nessuno degli altri che avevano incontrato era disposto a fare un viaggio così lungo e costoso. Mariuccia invece dovette aspettare di mettere da parte i soldi e c’erano voluti vari anni.

Poi, nei primi mesi del 1884, lei e Juan si erano imbarcati e dopo poco più di due mesi di viaggio per mare erano arrivati in Italia.

Si erano sposati a Fornoli l’8 Maggio 1884.

Quella fu la prima e l’ultima volta che Juan mise piede in una Chiesa.

La madre Costanza, il mattino delle nozze le mise agli orecchi i bellissimi pendenti d’oro bianco e platino con due brillanti per ogni orecchino.

Li aveva comprati a Marsilia tanti anni prima, pensando di darli alla prima figliuola che si sarebbe sposata.

 

 

 Quando i camaleonti... danzavano sulla sabbia rovente, il mio tempo era felice

di Aldo Zelli1

L’infanzia felice vissuta in Tripolitania, dall’arrivo all’età di cinque anni, a quando la malattia del padre e altri eventi modificano le condizioni della famiglia.

Una settimana dopo il nostro arrivo a Zuara, il babbo mi accompagnò all’asilo delle Suore Francescane. Questo era un ampio edificio bianco verso la stazione: una antica caserma. Nel mezzo aveva un grande cortile con un porticato tutto intorno. Per metà era adibito ad alloggio delle cinque suore e nella rimanente metà c’erano due vaste aule, il teatrino, i ripostigli e l’ufficio della superiora.

Proprio in mezzo al cortile c’era un’aiuola esagonale sopraelevata da terra per circa un metro, al centro della quale troneggiava una annosa pianta di limone e torno torno al muricciolo una bordatura di gerani fiammeggianti. Sotto il porticato, specialmente dalla parte della clausura vi era una profusione di vasi e vasetti con piante ornamentali e rampicanti.

L’asilo mi piacque subito, forse per quel senso di frescura che vi era nel patio e tutto quel contrasto di verde e di bianco.

Quando varcammo il portone la superiora-direttrice, Suor Maria Luigia del Calvario, ci attendeva. A poca distanza altre due suore andavano raccogliendo i propri alunni, man mano che arrivavano. Madre Anna del Sacro Cuore i più grandicelli e Madre Immacolata i più piccini. Le altre due suore, che conobbi più tardi, erano Madre Maria Teresa del Divino Carmelo, che dirigeva il laboratorio di tappeti delle ragazzette arabe e Madre Mary-Assumption, la cuciniera. Quest’ultima era una suora maltese e parlava in un modo stranissimo, almeno alle mie orecchie.

Quando Madre Luigia ci vide, ci venne incontro festosa.

“Oh, il caro piccino!”, esclamò.

Rispose al saluto ossequioso di mio padre, mi accarezzò il capo e mi guardò benevola.

“Vieni volentieri all’asilo?”, mi chiese.

Io annui e me ne stetti li tutto imbarazzato nel mio nuovo grembiulino bianco, con il gran fiocco azzurro sotto il mento, stringendo nervosamente tra le mani il manico del cestellino della merenda.

“Certo che viene volentieri – affermò mio padre – Lo desidera tanto!”.

Il che non era vero. Giusto mezz’ora prima la mamma mi aveva rifilato un paio di sculaccioni perché mentre mi lavavo il collo, io avevo gridato ‘Accidenti all’asilo’.

“Ah, bravo, bravo…”, soggiunse Madre Luigia e mi affidò alle cure di Madre Anna perché mi sistemasse nell’aula dei bambini grandi. Tanto Madre Maria Luigia era magra e segaligna, tanto tonda e paffuta era Madre Anna che pareva rotolare più che camminare.

Quest’ultima mi prese per la mano.

“Oh, che bel giovanottino”, disse.

Mio padre si chinò a baciarmi sulla fronte, mi raccomandò di essere buono e di fare il bravo – quante raccomandazioni quella mattina! – e si congedò dalla suora direttrice.

Quando lo vidi mettersi la paglietta e allontanarsi tutto elegante nel suo abito bianco, mi parve di sprofondare. Due grosse lacrime mi scivolarono giù per le guance. Madre Anna non se ne accorse o finse di non accorgersene. Continuando a tenermi per mano e seguita da un codazzo di bambini che mi sbirciavano con somma curiosità, entrò nell’aula.

1 nato ad Arezzo nel 1918. Memoria di pp. 197 inviata al concorso 1998. L’estratto è compreso tra pag. 19 e pag. 24.

L’ambiente era luminoso e ben arredato: c’erano diversi piccoli banchi, alcune tavoline con piccole sedie, una cattedra e alquanti armadietti e molte piante sui davanzali delle finestre. Alle pareti disegni, cartelloni, illustrazioni varie.

Gli altri bambini, già pratici evidentemente, presero subito posto nei loro banchi o tavoline, dopo aver posato i cestini negli armadietti. Io rimasi lì, nel bel mezzo dell’aula dove la suora mi aveva lasciato per andare alla cattedra, inerme preda di almeno trenta paia d’occhi curiosi e inquisitori.

“Ora ti darò il posto – mi disse dopo qualche istante – ti metterò vicino a…Vediamo un po’, ti metterò vicino a... Ah, si, ecco. Vicino ad Aziza e Ghibri. Ti va bene?”

Feci un cenno affermativo. Che altro potevo fare se non dire di si? E poi chi erano Aziza e Ghibri? Che razza di nomi.

Chi fossero i due lo scoprii subito. La prima era una bambina grande e robusta, di forse sette anni, color cioccolatino. Il suo babbo era uno sciumbasci mulatto e la sua mamma una negra, come seppi in seguito. Ghibri era un piccolo ebreo, pressappoco della mia età, figlio di uno stagnino della Hara. La bambina prontissima si alzò dal suo posto, mi si accostò con un amichevole sorriso e mi prese per la mano. Ghibri mi si avvicinò subito dopo, tutto complimentoso e mi si piazzò davanti con un’aria da passerottino infreddolito.

“Aziza, mostragli l’armadietto dove deve tenere il cestellino”, disse la suora. Ubbidientissima Aziza mi trascinò davanti ad uno dei piccoli armadi, lo aprì e fece per prendermi il cestino dalle mani.

Fino a quel momento ero stato docile e silenzioso, ma quando mi accorsi che la negretta voleva il mio cestello della merenda, mi ribellai.

“No, E’ mio!”, esclamai a voce alta.

La bambina restò interdetta e il piccolo ebreo fece letteralmente un balzo all’indietro. Madre Anna si alzò, mi venne vicina, mi tolse di mano il cestello e lo porse ad Aziza. “Vai, cara, a metterlo nell’armadietto”.

Non ebbi l’ardire di fiatare. Divenni rosso di stizza e di vergogna e rimasi immobile con gli occhi bassi, i pugni chiusi ficcati con forza nelle tasche del grembiulino bianco.

La suora mi passò una mano sotto il mento e mi costrinse ad alzare la testa.

“Aziza e il piccolo Ghibri sono bambini buonissimi e tu starai vicino a loro. Tu sarai altrettanto buono, vero?”

Il suo viso era dolce e sorridente, ma la voce era ferma.

“Adesso – continuò – tu andrai a sedere vicino a loro perché dobbiamo dire la preghiera”.

Aziza andò a prendere una piccola sedia e la pose tra la sua e quella di Ghibri. Sedetti in silenzio. Subito dopo Madre Anna, ritornata alla cattedra, battè le mani.

Un certo numero di bambini si levò in piedi, altri restarono seduti. Vedendo che la negretta o il piccolo ebreo non si erano alzati, io non mi mossi.

“Aldo, in piedi!”, ordinò la suora.

“Ma questi non si sono alzati”, obiettai timidamente.

“Aziza è musulmana e Ghibri è israelita – spiegò madre Anna – loro pregano mentalmente restando seduti”.

“Quello si è alzato”, replicai vedendo un altro bambino che attendeva compunto con le mani giunte.

“Carmelo è cattolico come noi”, aggiunse la suora pazientemente.

Il cattolico Carmelo mi mostrò la lingua e subito riprese la sua pia posizione orante. Io feci altrettanto e ci aggiunsi un paio di boccacce. La Madre, forse, non se ne avvide e cominciò:

“Angelo di Dio che sei il mio custode...”

“Salve o Maria, piena di grazia…”

Subito dopo la preghiera la suora intonò una canzoncina:

“Proteggi Signor, la mamma e il papà, proteggi Signor, ecc. ecc.

Era una canzoncina abbastanza lunga, piena di ‘Proteggi, Signor’, che terminava con la richiesta al Signor di assicurare il paradiso a tutti i bambini buoni e ai loro amati genitori.

Al termine del canto tornammo a sederci e Madre Anna passando vicino ai banchi e alle tavoline (io ero ad una tavolina), cominciò a distribuire il lavoro, traendolo via via da una grande scatola che

uno dei ragazzini più grandi teneva fra le braccia: cartoncini con le figure da colorare, striscioline di carta lucida per la tessitura, fogli quadrettati per disegnare, spaghi colorati da intrecciare. Qualche bambina aveva un ricamo, altre imparavano a lavorare a maglia.

Aziza aveva un ricamo e Ghibri una tessitura multicolore.

“A te che cosa piacerebbe fare ?”, mi chiese.

“Una cosa come quella”, risposi indicando la tessitura del piccolo ebreo.

“Ne sarai capace? Comunque prova…”, frugò nella grande scatola e mi diede un certo numero di striscette colorate e un foglio di carta più robusta con molti tagli verticali.

La tessitura di Ghibri già fatta per metà era piuttosto grande, la mia molto più piccola.

“Ne voglio una grande così”, dissi

Madre Anna mi fissò con una certa severità.

“Non si dice mai ‘voglio’. I bravi bambini dicono ‘desidero’, e ‘per piacere’”.

Mi ritirò il foglio piccolo e me ne diede uno più grande.

“Se lo sciupi però, ti metterò in castigo”, mi comunicò seccamente.

“Allora non lo voglio”, replicai.

“Adesso tu lo tieni e lavori!”

“No”

“Tu lo tieni e lavori come gli altri”, mi ordinò.

“No!”, e con un gesto di rabbia stazzonai il foglio, ne feci una palla e la scaraventai nel bel mezzo dell’aula.

Un silenzio greve e improvviso scese su quella trentina di ragazzetti che avevano assistiti increduli e sbigottiti al mio gesto di rivolta contro la suora alla quale tutti ubbidivano ciecamente. Madre Anna non abituata a simili scatti di ribellione, impallidì. Rimase immobile per qualche istante, poi con voce gelida, lasciando cadere le parole ad una ad una, pronunciò la temuta sentenza.

“Questo bambino – disse in tono distaccato e severo – non merita di stare in compagnia nostra. E’ troppo cattivo e noi non lo vogliamo qui. Adesso lo porteremo nell’ufficio della Madre Superiora”.

Volse lo sguardo sugli altri bambini che mi fissavano con occhi sgranati.

Allora accadde l’imprevisto, l’inconcepibile in quell’aula dove tutto aveva sempre funzionato alla perfezione, sotto l’indiscussa autorità della suora. Il piccolo timido Ghibri si alzò di scatto facendo cadere una seggiolina. Ero rimasto seduto, rosso in viso, col cuore in tumulto; lui mi venne alle spalle, mi abbracciò e alzando il visetto smunto guardò la suora con gesto di sfida.

“Bambino stari qui. Mio amico”.

“Ghibri!”, esclamò la suora.

Aziza, la calma ubbidiente faccendiera negretta, si alzò a sua volta.

“Questo bambino, boveretta, stare qui. Non andare suberiora. Lui buono – esclamò – Io guardari ber lui”.

“Aziza!”, la voce di Madre Anna era stridula.

Noi tre formavamo un gruppo compatto: Ghibri mi teneva stretto e Aziza alle nostre spalle pareva proteggerci. La suora ci volse bruscamente la schiena e battendo le mani disse agli altri:

“Su, bambini, al lavoro! Che cosa c’è da guardare?”

Aziza andò a raccogliere il foglio di carta appallottolato, lo distese sulla tavolina, lo lisciò e mi fece un gesto di incoraggiamento.

“Lavorari tezzitura”, sussurrò con un sorriso.

Subito il piccolo Ghibri prese una striscetta rossa – il mio foglio era giallo – e mi mostrò come dovevo fare. Le sue dita erano agilissime.

Posai una mano sulla sua manina magra.

“Io mi chiamo Aldo”, dissi piano.

Quello assentì ripetutamente.

“Aldu…Aldu…”

“Andare Madri Anna”, mi suggerì Aziza, intendendo certo che mi recassi a chiederle perdono.

Mi alzai esitante.

“Andare…” mi incoraggiò la negretta.

A passi incerti percorsi metà aula sotto gli occhi curiosi degli altri bambini e mi fermai davanti alla cattedra.

La suora mi lasciò cuocere nel mio brodo per qualche istante, poi alzò gli occhi con fare interrogativo.

“Che cosa vuoi?”

Non risposi, ma due eloquenti lacrimoni mi scivolarono giù per il viso. Attendevo senza pronunciare una parola.

“Vuoi chiedere scusa?”

Feci ripetuti cenni di assenso.

“Non lo farai più?”

Scossi il capo più volte.

“Sarai sempre un bravo bambino?”

Annuì ancora.

“Allora ritorna al tuo posto e lavora alla tua tessitura”.

Sollevato da un gran peso corsi verso la mia tavolina.

“Piano!”, mi raccomandò la suora.

Rallentai il passo. Ghibri che aveva già sistemato cinque o sei striscioline di carta nel mio foglio e Aziza che aveva ripreso il suo ricamo mi accolsero festosi. Sorrisi loro e mi guardai intorno furtivamente: Carmelino il cattolico mi mostrò la lingua. Mi diedi un contegno e mi chinai sul mio lavoro.

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Questa lezione è sulla pagina di diario, il lavoro da svolgere si articola in quattro parti:

lettura

comprensione

riassunto scritto

visione del videoclip da fare il commento scritto.

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